Si scrive come si legge

Conversazione con un parmigiano “anacronistico”

Come si scrive il cognome? «Come si legge».  Franco Somacher, ex insegnante di scuola elementare , vende libri usati nel suo banco sotto i portici dell’Ospeale Vecchio, a Parma. Si concede, ma con riserva iniziale. «L’intervista è su Parma o su me come persona? Non ho tempo di confidarmi. Se mi intervista su Parma sono disponibile, per quanto attiene alla mia vita privata non ne sono geloso, ma ne sono protettore ».
Da quanti anni vive a Parma? «Da 85».

Ha sempre avuto il banchetto? «Ovviamente se insegnavo non potevo averlo. Da quando sono andato in pensione invece che andare a giocare l’asso di briscola o a bere il lambrusco, per tenermi un po’ in esercizio e perché c’era anche un minimo margine dal punto di vista economico». 

Si vive diversamente rispetto ad anni fa? «Mi sembra ovvio. Sono nato prima della seconda guerra mondiale. Quando ero a scuola, il maestro, allorché la sirena avvisava che sarebbero avvenuti presumibilmente dei bombardamenti ci accompagnava al rifugio, quindi lei capisce che dai tempi di allora a quelli di oggi ci sono state delle modificazioni. La tecnologia non era avanzata come oggi. Il processo culturale era, per fortuna, più graduale, più lento. C’era possibilità di lasciare sedimentare e poi di monetizzare quello che avevamo appreso. I borghi erano la scuola elementare, o meglio ancora, la scuola era il supplemento della vita dei borghi. Era nei borghi che noi scorrazzavamo indisturbati. Passava qualche macchina ogni tanto ma insomma, la nostra vita era sempre per strada.  La società stessa era protettiva».

Lei ha vissuto quindi la seconda guerra mondiale che era un bambino? «Eh certo, se facevo (ride) le elementari».

Dov’era il rifugio che ha citato? «Ce n’era uno verso la scuola di San Marcellino che non esiste più, e poi un altro nel palazzo Belloni. Erano dislocati. Dovrei avere qua un libro che illustra dove c’erano i rifugi. Per trovarlo dovrei fare una ricerca particolareggiata, ci sono diversi libri che illustrano la Parma vecchia. Quando il linguaggio principale era il dialetto, anziché l’italiano. La vita era per un certo aspetto molto più semplice di quella che è la vita attuale. Maggiore la fratellanza, la comunicazione, gli amici. Problemi c’erano come sempre e ci saranno».

(Squilla il telefono) «Con permesso».

«Allora, dove eravamo rimasti? Di Parma bisognerebbe sapere se le interessa da un punto di vista urbanistico, dei rapporti sociali…»

Sì, dal punto di vista dei rapporti sociali.

«Mah i rapporti interpersonali erano positivi perché la guerra, c’era il coprifuoco, da noi passava un aereo che la città intera chiamava Pippo. Passava di notte e oscuravamo tutte le finestre. Avevamo inventato anche una canzoncina,che  faceva….e pippo pippo non lo sa che quando passa ride tutta la città, che era il contrario. Era una specie di esorcizzazione e al contempo un’ironia molto amara su questa presenza notturna. Al termine della guerra, la gente che visse sempre in casa in quel periodo, uscì. Non c’era più il coprifuoco e quindi la gente ballava per strada, ovviamente la povertà era conseguenza immediata della guerra ma aveva messo nella condizione la popolazione di ricostruirsi e ricompattarsi, stabilire dei rapporti dialettici che erano impostati sul cameratismo, sulla disponibilità umana. Io ricordo quando ero bambino che le porte di casa erano sempre aperte, non si chiudeva mai. C’era una sorta di reciproco aiuto, una disponibilità determinata dalla fiducia nata dal fatto che la guerra implica anche la sensazione condivisa  che si ha bisogno degli altri. Ci si dava un aiuto perché c’erano le madri vedove, o per tutta una serie di motivi contingenti e straordinari che la guerra aveva determinato.

Poi ci fu il momento del boom economico, la ricostruzione. Quindi si ricominciò a vivere, dopo le prime frenesie, con un momento di condivisione straordinaria. I bambini, i giovani soprattutto, erano sempre per le strade. Condividevano i giochi, che non venivano acquistati tranne che dalle famiglie abbienti. C’era l’imitazione del baseball che si chiamava gerlo. C’erano i sin alcol che sarebbe senza alcol e poi giocavamo con la pignella, come veniva definita allora. Il carrettino con dentro i cuscinetti a sfera eccetera. Gli inverni erano molto rigidi allora, nelle discese la sera si buttavano dei secchi d’acqua che ghiacciando di notte permettevano di fare una specie di pista ghiacciata insomma (ride). Perché allora noi nelle scarpe avevamo sotto tipo dei ferri da cavallo per non consumarle, addirittura per esempio molti sandali venivano fabbricati in casa dai genitori con i copertoni dei camion. Non c’erano, e questa è una cosa che mi ferisce profondamente, i supermercati. Nei negozi c’erano i cibi adatti alla povera gente anche. Il merluzzo costava niente, era in tinozze di zinco esposte fuori dai negozi. Costava pochissimo, lo stesso il mais e la polenta che era commestita quasi quotidianamente. Passavano in giro con i carretti, non c’erano le lavatrici, a raccogliere le lenzuola per portarle a lavare e poi venivano riconsegnate. Faccio un esempio. Mia mamma me la ricordo che diceva quando andavo a fare la spesa: Franco, ricordati gli odori. Gli odori erano il sedano, il prezzemolo, la carota e la cipolla che venivano avvolti in un foglio di giornale e venivano dati gratuitamente. In quei negozi  si instaurava un rapporto straordinario perché non sempre si avevano i soldi per pagare immediatamente e allora si andava a fare spesa che c’erano due libri: uno che registrava la spesa e di fianco il denaro pagato e l’altro ce l’aveva la famiglia. Un doppio libretto su cui veniva usata la matita copiativa che non si poteva cancellare. C’era un rapporto straordinario, ci si confidava addirittura. C’era una cultura che veniva tramandata oralmente, i telefonini non si sapeva cosa fossero ovviamente. Il frigorifero non c’era, allora passavano dai borghi con innumerevoli stecche di ghiaccio che venivano acquistate, frantumate e messe sul davanzale della finestra dove veniva posta la verdura o i cibi che potevano deperire durante il periodo estivo. I panni venivano stesi fuori. Ho letto accidentalmente una poesia e mi ha fatto venire in mente queste distese di panni.

È un verso di Neruda che recito testualmente: “asciugamani, panni, camicie che piangono lente lacrime”. Ogni tanto, molto raramente, c’è qualche assonanza, il vento quando arriccia le foglie dei tigli che mi fa venire in mente certe cose, per fortuna senza nostalgia che ritengo un sentimento che deteriora, insomma la nostalgia non è un sentimento positivo. Ecco, quella era l’epoca di noi ragazzi.

Per quanto riguarda il resto, Parma, come in tutta l’Italia, i giovani vandalizzavano anche allora, perché io con la fionda quando tiravo (ride).. i giovani ne hanno sempre fatte. Dopo c’è un limite, non avevamo insomma i coltelli per intenderci. Le zuffe inevitabilmente esistevano, però allora noi avevamo la garanzia, sottolineo, garanzia, di un posto di lavoro che potevamo scegliere. Non esisteva la disoccupazione, tutti avevano possibilità di scegliere il proprio lavoro, i propri studi. La scuola era assolutamente gratuita, la scuola elementare aveva due volumi solamente: l’abecedario che era il libro di lettura e il sussidiario, dopo ce li ho lì, glieli faccio vedere. Allora, scuola garantita, obbligatoria e gratuita. Lavoro garantito, l’asilo non si pagava. La famiglia se ti sposavi, vivevi si con molti sacrifici ma con la prospettiva, il progetto di avere la propria casa. Noi giovani potemmo allora progettare il nostro futuro avendo delle garanzie. Sapendo su cosa potere contare oltre che sulle tue forze, con gli aiuti che la società ti offre per crescere. Ecco, oggi queste garanzie non esistono, nessuna. Allora quando ce l’hanno coi giovani dico, ma i giovani psicologicamente come possono esserne entusiasti? Allora c’è il bisogno di cercare un’identità fuori di sé. Noi avevamo personalità, tutti i miei compagni di viaggio che hanno la mia età insomma, crescevamo avendo coscienza di noi stessi, dei valori che avevamo più o meno, al di là delle presunzioni ovviamente. Allora se non credi in te stesso, nelle tue forze, e non sai su cosa effettivamente puoi contare..dico:  j’accuse nei confronti della società, perché tutti trovano sempre un alibi no? “Ma noi eravamo..” quando uno dice “ai miei tempi”, ma i tuoi tempi sono i tempi nei quali vivi dico io alla gente. I tuoi tempi sono oggi. Ecco, quindi, la città proprio per una serie di motivi, ha subìto un deperimento, c’è stato un degrado culturale, di cameratismo. La Parma vecchia, la parmigianità. C’è qualcuno che cerca di risollevare le sorti del dialetto ma il dialetto è una lingua morta ormai».

«Lei parla dialetto reggiano? » No.

«Ecco allora vede, questa è una grave perdita. Gravissima perché perdi il legame col passato. La morte della lingua, dopo il resto appartiene alla storia ma.. dicevano i latini historia magistra vitae ma un cacchio (ride), fosse stata maestra di vita oggi non ci sarebbe quel che sta accadendo. Ecco, quindi io se devo trovare qualche affinità elettiva devo andare con la gente della mia età. Da ragazzo io e tutti gli altri della mia età stavamo insieme dai 15 ai 40 anni, non c’era una divisione. Adesso un giovane che va in compagnia con uno di 40 anni non esiste. Andare a cena insieme, cantare insieme nelle osterie non esiste, no, oggi no. Quindi noi avevamo come maestri di vita i borghi e anche gli adulti, con i quali compartecipavamo ma insomma, io non ho neanche amarezza. Un po’ di tristezza perché mi sento un ospite anacronistico di questa società. Come se fossi fuori tempo, fuori luogo, in un’altra dimensione.

Diceva Abbate in Libertà e società di massa:  “oggi essere emotivo è sinonimo di squilibrio”. Io adesso mi metto a cantare, la gente si volta. Quando ero un ragazzo i garzoni del panettiere che portavano in giro il pane cantavano. Le madri quando rigovernavano la casa cantavano, dai borghi si sentiva cantare. Oggi un’altra cosa venuta meno e del quale sento il bisogno e la mancanza è il sorriso. Adesso sono solo in mezzo a tanta gente, è una  solitudine questa che non provai mai allora. Era impossibile provare la solitudine sociale. C’è la solitudine che uno sceglie, c’è la solitudine del vecchio che si trova in casa, le solitudini potevano avere diverse accezioni. Credo che, più o meno consciamente, tutti abbiano profondo desiderio della condivisione. Senti più o meno lucidamente che hai bisogno degli altri però si crea difficoltà perché si è conformati in modo più o meno pesante. Se avessi un figlio che si chiude in una stanza e che ha rapporti con tutto il resto del mondo gli chiederei : che rapporti hai? Non sono rapporti, sono rapporti che hai con te stesso. Allora diventano delle introspezioni pericolose insomma, hai il mondo davanti a te, credi di possederlo.  A Parma allora ci si conosceva tutti, salto di palo in frasca giusto per cercare di esaudire qualche suo desiderio. Adesso la banlieue, la periferia di Parma si è espansa in un modo incredibile. Ci sono circa 50mila abitanti in più che non si conoscono, allora ci si conosceva tutti. Poi c’è una popolazione multietnica quindi prima di trovare l’accordo giusto per un’integrazione reale ci vorrà molto tempo insomma. Perché per l’integrazione ci vuole la disponibilità a capire gli altri e non solo umanamente ma anche culturalmente. Ci vuol del tempo, bisogna costruire qualcosa insieme, condividere e questo non lo vedo per il momento attuabile. Lo vedo possibile ma di difficile realizzazione. Il parmigiano poi è caratterialmente un po’ superficiale (ride). A Parma non sai bene come ti valutano gli altri. Un tempo questo era più possibile, il parmigiano era diverso come disponibilità umana. Anche la cultura dell’accettazione non esiste qua a Parma perché “droghen.. e per l’amor di dio i neri, spacciano la droga” (fa il verso in dialetto). E allora l’integrazione diventa non un miraggio ma insomma. C’è questo essere così drastici nel pontificare, sentenziare e apporre etichette pregiudicanti che non va bene». 

Ilaria Ghirardini