
Cutrotown. I calabresi di Parma
Dal 1997 sono approdati sulle coste italiane oltre 1 milione di migranti e da inizio 2020, secondo il Viminale, ne sono sbarcati circa 5.298, di cui il 16 % sono minori non accompagnati.
Oltre questi dati, ciò che da anni sta facendo scalpore è la questione del trattamento degli extracomunitari nel nostro Paese.
Il 28 settembre 2015 è stato anche adottato uno strumento denominato “Roadmap italiana”; una sorta di tabella di marcia per la gestione italiana del sistema di accoglienza cui fece seguito una circolare del Dipartimento delle libertà civili e immigrazione, allo scopo di evidenziare gli scenari che si potevano prefigurare nell’immediatezza degli sbarchi.
Non è stato fatto nulla invece e pochissimo hanno scritto i giornali sul perdurante fenomeno di immigrazione interna nel nostro paese. Un fenomeno costante negli anni, dovuto soprattutto alla crisi economica e che ha comportato e comporta lo spopolamento del Meridione.
I calabresi sanno bene cosa vuol dire tutto questo da generazioni oramai: molti sono stati gli addii, le separazioni dolorose di famiglie e amicizie. E, quando si parla di calabresi, il riferimento ad alcuni paesi come quello cutrese, in provincia di Crotone, non possono assolutamente mancare. Quando parliamo di calabresi di Parma, il più delle volte stiamo parlando di gente che da Cutro si è stabilita qui. È cosa risaputa.
Si fa addirittura uso di espressioni come “Cutrotown”, forse rifacendosi nel nome al celebre sobborgo di New York abitato dalle comunità di cinesi?
Ciò non toglie che ci siano anche altre comunità calabresi nel territorio parmense ed emiliano in genere, come quelle del marchesato di Cosenza, di Catanzaro, di Reggio Calabria, di Crotone e dall’area meridionale-orientale della provincia di Reggio stabilitesi poi anche a Modena, Cremona, Mantova, Piacenza e Rimini.
Una presenza oggi aumentata dai numerosi studenti che intraprendono gli studi universitari al Nord, il 40% (https://larivieraonline.com/altro-che-immigrati-la-vera-emergenza-è-l’emigrazione-degli-italiani-calabresi-inclusi) e che il più delle volte poi si stabilizzano li, anche svolgendo lavori occasionali, dal momento che ci sono più prospettive lavorative.
Certo è che si è trattato di flussi migratori avvenuti a tappe nel corso del Novecento e che avvengono tuttora per motivi più disparati.
Per la situazione attuale non ci sono numeri e localizzazioni precise. Grosso modo alcune ricostruzioni possono essere fatte a partire dai dati elettorali più recenti (67% di votanti in Emilia, 44% in Calabria) riportate da un articolo della Gazzetta del Mezzogiorno (https://www.lagazzettadelmezzogiorno.it/news/analisi/1202467/emilia-ricca-calabria-povera-cosi-create-le-due-italie.html ) e in base al numero di persone che hanno lasciato l’Emilia Romagna per rientrare in Calabria durante il periodo del Coronavirus.
Almeno 8 pullman, alla fine di Febbraio, sono partiti per raggiungere Cutro e inevitabilmente hanno portato un allarme.
Nei fatti concreti, questa situazione fu costruita negli anni ’70, quando si formò il cosiddetto “ceto dei muratori”. Da qui si diramano le radici di quella che può essere definita una contaminazione su più fronti: culturale, gastronomico e sociale.
Partendo dai fattori culturali vi sono: la dedizione ai lavori, soprattutto quelli manuali, molte volte figli di antiche tradizioni familiari (come la lavorazione del grano), la cultura musicale, quella scacchistica e del SS Crocefisso.
“Magnagrecia”, titolo di un singolo del gruppo “Il Parto delle nuvole pesanti” è esemplificativo del tema di paesi abbandonati con conseguente diramazione di culture, cui fa da contraltare il sovraffollamento delle grandi città. Come anche il gioco degli scacchi e la solenne festa del 3 Maggio sono un’istituzione.
Centinaia sono le persone che da Parma, in Agosto, giungono in Calabria e altrettante quelle che affollano autobus, aerei, treni per prendere parte alla solenne festività detta “Del Signore”.
Dal punto di vista gastronomico invece, potremmo spaziare tra innumerevoli prodotti.
Al Nord oramai è un luogo comune parlare di pane cutrese, di turdiddi e susumelle (dolci tipici natalizi), di pitte e cuzzupe (dolci tipici pasquali) e dei migliori vini cirotani. Cosi come il Sud sembra da sempre conoscere il buon sapore dei formaggi, dei prosciutti, del salame, dei tortelli.
Dal punto di vista più specificatamente sociale invece, i meridionali hanno portato il senso della convivialità a tavola, momento sacro e la propensione a stare insieme. Tanti infatti sono i centri di aggregazione, soprattutto quelli frequentati dagli studenti: Via Garibaldi, Via Farini, l’Hub caffè, le Malve, la Dolce Vita, Via D’Azeglio e la nota discoteca Dadaumpa.
In 1.090 km di distanza avvengono oramai delle commistioni perfette, supportate dall’esistenza di numerosi comitati, come quello di Promozione Culturale Calabrese, l’organizzazione no-profit Calabresi di Parma o l’associazione culturale Bruttium-circolo dei calabresi.
A ciò segue l’organizzazione di molte manifestazioni.
Tramite l’importante medium dei social si ricorda, per esempio, una tradizione che si è consolidata negli anni: la due giorni della festa calabrese a Sala Baganza.
Cosa c’è allora di più bello del mettere in risalto la condizione del nostro Paese, senza cadere e scadere nei soliti cliché? La risposta potrebbe essere oppure è: nulla. Ma è una costante che ci accompagna.
Anche questo matrimonio tra luoghi, culture e tradizioni non è avvenuto in acque tranquille. Risente di quell’eco manzoniano che citava: “Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai”. È avvenuto infatti tra molti pregiudizi, tuttora esistenti.
La comunità calabrese, che sia essa cutrese per gran parte o meno, è stata ed è sottoposta a continui attacchi speculativi. Attacchi che offendono tutta la gente brava, onesta, laboriosa. Tutte le mani offerte al lavoro che hanno contribuito alla crescita e allo sviluppo del Nord.
Per quella propensione innata che spinge l’animo umano a cedere al pregiudizio e a cancellare quanto di buono possa esser fatto.
Si preferisce mettere davanti a tutto l’etichetta del malaffare che affligge l’economia crotonese e dell’inquinamento malavitoso (estremizzato dopo la recente inchiesta Aemilia).
Questa non può essere però una difesa ad oltranza. Non si può cedere ad un arroccamento identitario cosi.
C’è chi resta, c’è chi parte, chi torna, ma…
È un falso costume che ha superato benissimo Pasolini nel 1959, in occasione della sua discesa in Calabria, dopo aver parlato di “paese dei banditi”. Perché non possiamo riuscirci noi, figli di una generazione molto più giovane ?
La risposta è semplice: guardiamo al passato e, in una sorta di immobilità mentale, non riusciamo a fare grandi passi in avanti. Adoperiamo con superficialità termini come memoria, tradizione, accoglienza ma poi non li mettiamo in pratica. Abbiamo nostalgia del passato ma non quella critica per il presente.
C’è chi resta, c’è chi parte, chi torna, ma non c’è stato e non c’è ancora chi riesce a comprendere che c’è anche Calabria e Calabria e che un pregiudizio può essere più pericoloso di una pandemia.
Resteremo cosi sospesi sul filo di un Odi et amo.
Mariateresa Caputo