Sono nata in Italia, sono marocchina
e mi considero parmigiana.

Ci sono questioni che in Italia si fatica a trattare: la diversità, l’inclusione e il razzismo sono senza dubbio fra queste le più importanti. Come hanno dimostrato i rivolgimenti negli Stati Uniti che hanno seguito l’uccisione di George Floyd, essi sono stati l’unica occasione in cui si è brevemente aperta, non solo sui media ma anche fra le persone, una conversazione sul problema del razzismo. Senza però, o con pochi, riferimenti alla situazione italiana. Eppure ciò non significa che questa sia solo una questione americana perché anche nel nostro paese esiste eccome e si declina in modi diversi.
Non parlandone praticamente mai, si è finito per normalizzare i peggiori stereotipi sul fenomeno migratorio. Anche quando non ci si riferisce ai “barconi” e ai disperati che rischiano la vita in mare per approdare in Italia, bensì ai tanti che vivono da tempo nel nostro paese e che qui sono pure nati e coltivano idee di lavoro e inserimento professionale di medio e alto profilo. Su tutti questi italiani diversi solo per colore della pelle e tratti somatici, ma che ambiscono a diventare “professionisti” nei più diversi ambiti, pesano condizionamenti inconsci, nella migliore delle ipotesi, che nella pratica si trasformano in mancanza di opportunità. O in esaltazione di canoni estetici, impossibili da raggiungere, per esempio se si è neri.

negli slogan pubblicitari si vedano volti e corpi praticamente identici

Se non avete mai notato come negli slogan pubblicitari si vedano volti e corpi praticamente identici o se siete fra coloro che si sorprendono quando una persona nera parla fluentemente in italiano, allora non vi siete mai accorti di questi condizionamenti. Ma non è interamente colpa vostra, perché le minoranze sono sempre state narrate con molta superficialità. E’ certo però che si continuerà a essere parte del problema se di fronte a questa verità si continuerà a negarla o a trovare scuse, anziché provare a cercare soluzioni.

Serve un nuovo genere di conversazioni, ma affinché possano essere il più accurate possibile, dunque utili a tutti, devono necessariamente essere condotte da chi tanti e ordinari episodi di discriminazione ha vissuto e continua a vivere di persona. Con questo spirito ho chiesto a dei giovani parmigiani – di seconda generazione, ovvero che sono cresciuti a Parma da genitori immigrati – come si sentono, cosa li infastidisce e cosa sperano per il futuro.

Sorprendentemente nonostante fossero tutti di background molto diversi, le loro storie hanno molto in comune. A partire dal concetto di casa, nel senso di identità e provenienza, le cui problematiche sono molto bene riassunte da Hajar. “Rispondere ‘sono di Parma’ alla domanda da ‘dove vieni?’ comporta sempre una lunga conversazione con chi si ha davanti, Nonostante il mio accento e la mia cadenza siano di qui, ciò non è mai abbastanza. Così con il tempo – mi dice – ho iniziato a calibrare la mia risposta in relazione al tempo che spenderò con la persona che me la pone e al futuro del rapporto che potrà instaurarsi. Insomma: inutile sprecare tempo e fiato. In questo senso la risposta che fino ad ora si è dimostrata più efficace, nel non comportare ulteriori chiarimenti è “sono nata in Italia ma i miei genitori sono marocchini.”

Quando provo ad approfondire scopro che è quasi tutto è da ricondurre alle apparenze, o meglio all’aspetto, come mi racconta Met. “Danno tutti per scontato che io sia italiano, poi dico il mio nome e rimangono tutti sorpresi, se non sconvolti: è come se nell’immaginario comune per essere considerati italiani si dovesse avere solo certi nomi, essere in qualche modo cattolici e avere un determinato aspetto, anche se da nord a sud gli italiani sono molto diversi.”

… modo in cui il fenomeno dell’immigrazione è narrato nel nostro paese

Certo, non è facile capire perché si fatichi a collegare che uno che parli italiano come un madrelingua è sicuramente nato o cresciuto in Italia. Però questo pregiudizio scaturisce sicuramente dal modo in cui il fenomeno dell’immigrazione è narrato nel nostro paese. Quando se ne parla infatti viene per lo più omesso come esso sia iniziato negli anni ’80 e continuato in maniera più massiccia negli anni ’90. Ma la maggior parte dei media lo descrive invece come qualcosa di estremamente recente e legato ai cosiddetti sbarchi clandestini dal Nord Africa. Se si considerasse quest’aspetto temporale, forse si comincerebbe a vedere in modo diverso molte di queste persone, diverse dal punto di vista etnico. Soprattutto i giovani, che essendo nati e/o cresciuti qui sono tutto meno che estranei. Che possono e devono essere parte attiva della società nazionale. Come mi ha raccontato Winta “al lavoro spesso quando è la prima volta che mi presento in un qualche ufficio, noto sempre occhi curiosi su di me. Vengo, anzi veniamo, perchè penso di parlare a nome della maggior parte dei professionisti che appartengono a minoranze, visti come eccezioni. Quando in realtà non c’è nulla di eccezionale: crescendo qui abbiamo avuto più opportunità dei nostri genitori, ed è normale poi diventare professionisti in un determinato settore.”

Questo rilievo apre una parentesi interessante sulla visione pressoché dominante nell’immaginario collettivo dell’immigrato come poco istruito e lontano dall’essere o potere diventare un professionista qualificato. Ancora una volta si torna all’argomento di partenza, in un contesto mediatico come quello Italiano, dove le minoranze non sono affatto rappresentate; o meglio a raccontarle è sempre un occhio esterno e spesso superficiale. Col risultato di penalizzare fortemente giovani che non conoscono altre realtà al di fuori di quella in cui sono cresciuti, ovvero quella dell’Italia e più nello specifico di Parma. Ma con danno dell’intera collettività. Perché – come afferma Soljane- se è penalizzante vivere una quotidianità che è “una continua lotta contro gli altri e se stessi per dimostrare di essere qualcuno piuttosto che qualcun altro…. la vita sociale, politica ed economica del paese e di Parma trarrebbe vantaggi sostanziosi da una maggiore partecipazione dei figli di immigrati”. .

Queste sono testimonianze che non si leggono spesso e invece si dovrebbero. Perché se c’è qualcosa che quest’anno, combinato con il risveglio del movimento del Black Lives Matter, ci ha insegnato è che bisogna assumersi le proprie responsabilità, prima che sia troppo tardi. Ora più che mai è tempo di iniziare ad ascoltare anche le voci fuori dal coro e chiederci come si possa cambiare per il meglio.  

Sumaia Saiboub